Identità e caratteristiche
Ognuno di noi è il risultato di una complessa alchimia di geni. Nasciamo con specifiche e uniche caratteristiche fisiche e intellettuali.
Alcune di queste sono dati sui quali abbiamo poche possibilità di intervento: il colore della pelle, il colore dei capelli e degli occhi (parrucchieri e lenti a contatto a parte), l’altezza, tanto per fare qualche esempio.
Altre nostre caratteristiche sono il risultato della vita che abbiamo vissuto e che viviamo. Essere nati in Italia o in uno sperduto villaggio dell’Africa centrale può fare la differenza; addirittura, per chi, all’interno della stessa Italia, è nato in una metropoli, le opportunità sono diverse rispetto a chi è nato in uno sperduto borgo della provincia.
La cultura, il credo religioso e le convinzioni politiche della famiglia di provenienza possono influire sul bambino che si appresta a percorrere il suo cammino verso l’età adulta. Allo stesso modo, hanno un peso sullo sviluppo della persona anche le condizioni economiche in cui vive, le quali possono determinare la qualità dell’alimentazione, delle cure mediche e della cura del corpo e della mente in termini generali.
Allora potremmo chiederci: “tutto ciò significa quindi che chi nasce in una zona con meno stimoli intellettuali e meno ricchezza può mettersi il cuore in pace e sapere sin da subito che condurrà una vita grama, nell’ignoranza e nella malattia?”
Assolutamente no!
La storia racconta vite di grandi personaggi con origini molto umili o disagiate.
Queste riflessioni possono invece portarci a un’altra domanda: “chi sono io per aver bisogno di fare la fatica di includere chi è diverso da me?”. Se solo avessimo vissuto esperienze in contesti diversi, oggi potremmo essere esattamente al posto di quella persona che oggi includiamo attraverso un ragionamento intellettuale basato sull’integrazione delle diversità.
Diverso da cosa? Ma da noi, è ovvio! Come se noi incarnassimo il simbolo della perfezione a cui rapportare ogni altro essere umano per stabilire qual è il gap che deve colmare. Detto così, fa rabbrividire, ma di fatto, parlare di inclusione presuppone il principio della diversità. E diversità presuppone il principio di un modello a cui tendere.
Non sarebbe meglio, come si usa per i fiori, parlare di “varietà” e non di “diversità”?
Inclusione generazionale
Forse i giovani, per essere accettati e compresi, dovrebbero adeguarsi ai vecchi? O, viceversa, i vecchi dovrebbero dimenticare esperienze e storia vissuta per essere ancora considerati apportatori di valore?
L’età è stata, ed è tutt’ora, un elemento che crea distanze tra le persone. Anche fuori del contesto professionale, si nota una sorta di diffidenza tra le generazioni, un mancato riconoscimento di elementi comuni. C’è una chiusura quasi “elitaria” all’interno di ogni gruppo che tende a rendere molto difficile una relazione autentica tra di essi.
Questa distanza è deleteria per lo sviluppo della società, per l’arricchimento del singolo e, all’interno dell’azienda, per la creazione e lo sviluppo delle necessarie sinergie.
Le imprese, talvolta, non aiutano il superamento di questo ostacolo, agevolando la creazione di “tribù aziendali” caratterizzate dalla comunanza di specifiche caratteristiche: i “senior”, “i junior”, “i neo assunti”, “i giovani talenti”, e così via.
Da chi imparano i giovani se si confrontano soltanto tra loro? Non tutto si può apprendere dai libri o dai corsi di formazione; l’esperienza e la conoscenza dell’operatività o del mercato possono arrivare esclusivamente da chi ha vissuto una storia. Alla stessa maniera, da chi, i più anziani possono attingere nuove energie per recuperare motivazione ed entusiasmo? Quanto valore può apportare all’azienda creare sorte di enclave abitate da persone stanche, con pochi obiettivi di crescita e orizzonti che, pian piano, diventano sempre più vicini?
Dal punto di vista dell’integrazione generazionale, un insegnamento ci può arrivare dal mondo dell’arte e dello spettacolo, in cui la condivisione di saperi, competenze ed esperienze tra tutti, senza distinzioni di età, è un fatto non solo diffuso, ma addirittura naturale.
Più le aziende creano occasioni di confronto e di integrazione tra le generazioni, più il clima interno è gradevole e, soprattutto, funzionale alla valorizzazione di tutti i contributi, per raggiungere risultati più soddisfacenti per tutti. In questo modo è più facile creare cultura diffusa, competenze complementari, ruoli intercambiabili e maggiori leve motivazionali.
Inclusione di genere
Maschi e femmine. Siamo uguali? No. Non sono solo la morfologia e la fisiologia a dirci che c’è differenza; ormai è provato anche a livello neurologico che ci sono alcune caratteristiche nella struttura del cervello che variano in base al genere, come ad esempio lo spessore della membrana che separa i due emisferi cerebrali.
È forse un problema? Assolutamente no. Diversi non significa che qualcuno ha più diritti di un altro, che una “varietà”, per diritto di nascita, ha un posto prenotato in prima fila, per godersi meglio lo spettacolo.
Noi siamo come i colori che compongono i raggi di luce. Non c’è un colore che ha più valore di un altro, non per questo possiamo dire che il rosso e il blu siano identici. Essi sono il risultato della velocità di movimento delle onde di luce. Il viola, che viaggia su onde più corte, rallenta più del rosso; ciò porta a straordinarie sfumature cromatiche.
Nella vita, come nel lavoro, la varietà di genere non dovrebbe rappresentare un ostacolo, bensì una ricchezza da sfruttare a vantaggio di tutti.
In azienda, avere la possibilità di osservare e affrontare una questione partendo da punti di vista diversi può garantire maggiore obbiettività e consente di allargare la visuale.
Il confronto fra generi non è una gara per vedere chi ha ragione, chi è il più brillante; è soltanto annettere valore e ampliare quanto più possibile il ventaglio delle opportunità di scelta; aggiungere competenze e attitudini; trovare connessioni nuove e idee non convenzionali. Ciò è possibile attraverso la molteplicità delle intelligenze.
Non ci sono generi da includere, ci sono persone da accompagnare verso l’abitudine di comunicare e condividere pensieri, capacità e attitudini in un’ottica di creazione di valore.
Inclusione culturale
Relativamente alla cultura, il vocabolario offre queste due definizioni.
Quanto concorre alla formazione dell’individuo sul piano intellettuale e morale, e all’acquisizione della consapevolezza del ruolo che gli compete nella società; il patrimonio delle cognizioni e delle esperienze acquisite tramite lo studio, ai fini di una specifica preparazione in uno o più campi del sapere; in senso antropologico, il complesso delle manifestazioni della vita materiale, sociale e spirituale di un popolo o di un gruppo etnico, in relazione alle varie fasi di un processo evolutivo o ai diversi periodi storici o alle condizioni ambientali.
La cultura, perciò, a differenza dell’età, del genere, dell’etnia, è qualcosa che, pur facendo parte del bagaglio personale di un individuo, arriva dall’esterno attraverso lo studio, lo sviluppo della consapevolezza personale, le abitudini della società in cui vive.
Cosa si intende, perciò, con “includere le culture”? Pare che faccia riferimento all’accettare che gli altri non hanno vissuto la nostra vita. Fa sorridere? Forse, eppure, in alcune interpretazioni esasperate di cultura, le persone talvolta provano un senso di distanza da altre solo perché leggono giornali diversi, o vestono seguendo mode alternative.
Nelle aziende, il divario culturale arriva addirittura a identificare gruppi tra loro ostili perché si occupano di attività differenti: la produzione contro le vendite; il marketing contro gli acquisti; le filiali contro la sede centrale, pur nella consapevolezza che ognuno dei dipendenti oggi può lavorare in un settore e domani in quello opposto.
Per superare il problema delle culture, è necessario superare i vincoli dei paradigmi personali, cioè della mappa del mondo che ogni persona crea nella propria testa come risultato delle proprie esperienze, delle proprie credenze e delle proprie percezioni.
Basta ricordare che la nostra realtà, cioè il mondo in cui viviamo e in cui ci relazioniamo non rappresenta “la verità”, ma piuttosto la nostra personale realtà, che altro non è che la narrazione che ognuno fa a se stesso della propria esistenza.