Andare sempre avanti, non mollare mai, superare i momenti difficili e alzarsi dopo un caduta con la stessa leggerezza con cui potremmo spiccare il volo, se avessimo le ali.
La filosofia che imperversa in questo periodo esalta la forza, la resilienza, la tenacia talmente focalizzata sull’obiettivo che rischia di sfociare nell’ostinazione.
Se non si arriva primi, tanto vale arrivare ultimi, per non vivere l’umiliazione di arrivare secondi. Vince chi urla più forte, chi mostra i muscoli, chi critica con più veemenza, chi è più volgare nelle proprie esternazioni. Questo raccontano i media attraverso i programmi di intrattenimento che diventano sempre e comunque competizioni violente, i confronti politici, le tavole rotonde in cui si respira adrenalina e antagonismo.
Questi sono i modelli che vengono proposti e che, inevitabilmente, assorbiamo senza neppure rendercene conto, noi adulti come i bambini e gli adolescenti, i quali non posseggono neppure i filtri dei valori e dell’interpretazione personale che hanno gli adulti.
Poi, però, leggiamo libri e articoli, partecipiamo a iniziative di formazione, seguiamo percorsi individuali per applicare una leadership gentile, per sviluppare la nostra capacità di ascolto e di accoglienza di ciò che è fuori di noi, per entrare in empatia con gli altri.
La resilienza fa male?
La resilienza è la capacità di reagire positivamente alle difficoltà, ai fallimenti, agli errori, senza perdersi d’animo e senza dubitare della propria autostima e autoefficacia.
Perché mai dovrebbe far male un atteggiamento simile? Significa accogliere l’errore e le prove che la vita ci chiede di superare confidando in noi, nelle nostre capacità e nella possibilità di avere a disposizione un contesto in grado di supportarci nel nostro procedere.
La resilienza è infatti considerata una preziosa caratteristica da sviluppare e mettere in atto ogni volta che siamo o ci sentiamo in difficoltà.
Eppure, pensare che esista soltanto l’acciaio, e che solo questo sia degno di ammirazione, possa vivere e sopravvivere, può essere pericoloso e, soprattutto, toglie la gioia di poter essere anche porcellane trasparenti, cristalli leggeri, impalpabili garze di cotone, lucenti sete variopinte.
Anche se siamo forti e siamo capaci di procedere eroicamente attraverso tutte le avversità della vita, permettiamoci anche il lusso di piangere, di chiedere aiuto, di abbassare la testa e sederci quando sentiamo che non ce la facciamo più. Ammettere e accogliere la nostra umanità, è anch’essa una altissima forma di coraggio.
Alla base del coraggio c’è la paura
Una delle definizioni di coraggio, fornite dai dizionari è: “Forza d’animo nel sopportare con serenità e rassegnazione dolori fisici o morali, nell’affrontare con decisione un pericolo, nel dire o fare cosa che importi rischio o sacrificio”.
La definizione di coraggio è più lunga, declinata in altre accezioni; chi è curioso, può approfondire in tal senso. In ogni caso, l’unica cosa che non viene nominata, come talvolta si sente dire, è che il coraggio sia l’assenza della paura.
La paura è una delle emozioni più antiche della specie umana, e anche di molte altre specie viventi; essa ha permesso e garantito – e tutt’ora questo è il suo principale compito – la nostra sopravvivenza ed evoluzione.
Se non avessimo paura, e non l’avessimo avuta all’inizio della nostra esistenza sulla Terra, ci saremmo estinti immediatamente.
Il coraggio consiste proprio nel riconoscere la paura, nel comprenderla, nel valutare quando ha senso sfidarla e andare oltre.
Perché, quindi, ammettere di provare paura dovrebbe essere indizio di scarso coraggio?