Mi aggiro per casa come un estraneo, guardo con nuovi occhi ciò che ho visto per tanti anni.
Scopro che c’è un piccolo salotto accolto all’interno di un bovindo; si affaccia curioso sul cortile deserto e muto.
Non ricordavo di avere questo salotto.
Su un tavolino rotondo, lucido, di legno scuro intarsiato di motivi floreali indistinguibili, trovo sparpagliate vecchie fotografie. Raccontano momenti cristallizzati e resi immortali.
Persone a me note, altre difficilmente riconoscibili, mi guardano attraverso la magia dell’obiettivo fotografico.
Paesaggi rubati a luoghi distanti, a case familiari, a situazioni non riconducibili a esperienze vissute. Tutto lì, stampato e ammucchiato senza ordine. La storia è stata scomposta in molecole tra loro inconciliabili, condannate a spartire uno spazio comune ma mai condiviso.
Pezzi di carta ingiallita narrano, attraverso un’immagine, storie più vaste, non sempre fedeli al passato, ma comunque autentiche perché ormai sedimentate negli occhi e nell’anima di chi le rievoca.
Tocco quelle vite bloccate per sempre tra le sbarre del ritratto e mi sembra di sentire le voci, di percepire gli odori, di cogliere gli animi di quel momento.
Fotografie: vite limitate dai contorni della carta. Cosa c’era oltre l’inquadratura? Quali altre storie si stavano consumando appena fuori della portata dell’obiettivo? Perché è stato deciso di interrompere la narrazione proprio in quel punto? Non valeva la pena di soffermarsi sul resto? Era sconveniente? Pochi centimetri in più avrebbero annesso un significato diverso al quadro?
Tutta la verità, nient’altro che la verità.
Ma come faccio a capire se dopo la verità raccontata, ce n’è ancora una parte, insignificante per tutti, che invece ha determinato proprio quella fotografia che tutti ci ostiniamo a osservare e a considerare la verità?
Riusciamo a ritrarre un albero piegato dal vento, ma non possiamo fermare l’immagine del vento.
Si vogliono sempre fatti, dati, prove concrete. Ci servono per rassicurarci; per farci dormire tranquilli, per vivere nell’illusione della sicurezza.
Dietro a ogni situazione concreta, dietro a ogni prova schiacciante, c’è sempre il vento che le ha generate. C’è sempre e soltanto il pensiero, talmente astratto e sfuggente, talmente segreto e inconfessabile, che non vogliamo neppure prendere in considerazione l’eventualità che esista.
Fuori dalle fotografie c’è quello che non si vuole far apparire, che non si vuole ricordare, che non si vuole menzionare, che non si vuole ammettere. Neppure a se stessi.
Fuori dalle fotografie c’è il burattinaio; ci sono i fili che muovono e mettono in posa i modelli; ci sono i grandi sceneggiatori e i registi che decidono come la fotografia deve apparire.
E si vive nell’illusione, creata ad arte, che ciò che è importante sia quello che ci viene permesso di osservare.
Chi è il fotografo?
Tratto dal libro “512411” di Monica Becco