Alcuni anni fa ho assistito all’avvio di un master in risorse umane. Presentavano l’obiettivo del master, il contenuto dei singoli moduli, si presentavano i docenti, e il tutto si concludeva con alcune riflessioni da parte di uno di loro. Era un direttore HR, e l’attualità di alcune sue parole mi colpisce ancora oggi. Diceva che era finita l’epoca in cui le aziende potevano permettersi di spendere mesi e mesi per sviluppare una vision, declinarla in obiettivi, tradurre gli obiettivi in competenze, per poi mappare le competenze dei propri dipendenti e capire quali fossero i gap da coprire. Secondo lui, aziende che avessero continuato a seguire un approccio simile in un mondo in continua accelerazione sarebbero state destinate a fallire. – Oltre a colpirmi, le sue parole mi facevano anche sorridere. Sorridere perché proprio che in quel periodo, per mesi avevo cercato di fissare un appuntamento con una referente aziendale che di volta in volta aveva rimandato perché, come mi diceva, era impegnata a mappare tutti i potential dell’azienda sulla mappa delle competenze e non riusciva più a fare altro. – Parliamo del 2013, e oggi mi viene da chiedere quanti dei cosiddetti ‹potential› di allora, avviati a un percorso di autosviluppo così preciso ma anche così rigido ancora si trovano in azienda, e quale sia oggi il valore di quella mappa, fatta sicuramente con serietà e dedizione; dubito che venga ancora degnata di uno sguardo.
La ‹Skill Economy› e le competenze del futuro
Da allora molto si è parlato delle ‹competenze del futuro›. Quelle competenze che serviranno alle organizzazioni per sopravvivere, per crescere e rimanere al passo con un mondo che cambia a ritmo incessante. Ma quali sono quelle competenze che faranno la differenza nel futuro? La domanda non è né nuova, né tantomeno originale. E come se non bastasse, non lo sono nemmeno le risposte: dal digitale, all’empatia, alla flessibilità, alle competenze di teamwork, al fatto di avere una vision d’insieme chiara, per citare alcuni esempi. Sembra che ognuno abbia la sua ricetta per il futuro, e per essere precisi, molti dei concetti proposti non sono nemmeno competenze in senso stretto ma attitudini, o aspetti di caratteristiche dell’individuo. Individuare ciò che è utile così certo non viene facile. E come possiamo essere sicuri che quelle competenze che oggi rappresentano il futuro, domani non saranno già obsolete? La risposta è facile: non possiamo.
Le ‹competenze del futuro›: un problema posto male
Ma non è questo il punto. Rincorrere le ‹competenze del futuro› è, almeno in parte, un problema posto male. Qual è ormai il valore e l’affidabilità di competenze che oggi acclamiamo come ‹future› e che probabilmente domani saranno già superate dagli eventi?Per decenni, i sistemi di performance management organizzativo si sono basati sullo sviluppo delle competenze. Per farlo, si definiva una griglia delle competenze che negli anni, o per manifesta obsolescenza, o per cambio di stakeholder-investitore, veniva aggiornata e modificata. La rigidità e l’arbitrarietà insite in questo tipo di approccio sono evidenti, e viene da aggiungere che un tale approccio è anche lento e rischia di essere già superato nel momento in cui viene finalizzato. Di fatto, un tale sistema di competence management nato per garantire il raggiungimento degli obiettivi e lo sviluppo delle persone, nella prassi troppo spesso diventa una camicia di forza che limita fino a opprimere l’espressione e lo sviluppo del potenziale organizzativo.
Un cambio di paradigma
Il discorso sulle competenze non è mai fine a sé stesso. Il fine ultimo di ogni discorso sulle competenze è di assicurare l’esistenza, lo sviluppo e il successo dell’organizzazione oggi e domani. Definito questo obiettivo, serve un cambio di paradigma. Non dico di non investire più nello sviluppo delle competenze. Dico di non concentrarci più in maniera esclusiva sulle competenze. Concentriamoci piuttosto sui processi alla base dell’agire delle persone che permettono di agire intenzionalmente su sé stessi e sul proprio ambiente in funzione di un obiettivo. Parlo delle capacità agentiche.
Le capacità agentiche
Le capacità agentiche «rappresentano i processi di base da cui dipende la possibilità umana di agire intenzionalmente su se stessi e sul proprio ambiente: in questo senso, quindi, esse consentono di sviluppare e porre in atto le proprie potenzialità realizzative.» (Cenciotti & Borgogni, 2018). L’articolo citato distingue quattro capacità agentiche: capacità di anticipazione, di autoriflessione, di autoregolamento e capacità di apprendimento vicario. Abbiamo spiegato più in dettaglio queste capacità nei nostri post degli ultimi mesi. Basti dire qui che le capacità agentiche sono alla base dei processi cognitivi ed emotivi della persona, in altre parole alla base del ‹cosa?› e del ‹come?›. Dipende in buona parte dalle capacità agentiche della persona quali e quante competenze riesce a integrare nel proprio modo di essere, quali sono i comportamenti messi in atto, e come vengono messi in atto. L’espressione attiva del potenziale dell’individuo dipende dalle sua capacità agentiche.
Perché quindi investire sulle capacità agentiche?
Viviamo una realtà liquida, veloce e complessa. Gestire potenziale e talenti con un approccio metodico-strutturale che in fin dei conti è nato come supporto di un’organizzazione di tipo taylorista è destinato a fallire. Di nome, molte delle aziende di oggi sono le stesse di trenta/ cinquanta anni fa; di fatto, il tessuto organizzativo di quelle aziende è cambiato radicalmente. Se vogliamo mettere le organizzazioni nelle condizioni di crescere e continuare a svilupparsi, non possiamo permetterci di lavorare con metodi rigidi di talent e competence management su organizzazioni sempre più flessibili e che si collocano in un contesto in costante flusso.
Norbert M. Grillitsch (nm.grillitsch@modusmaris.eu)
ModusMaris – CEO